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Michele Lupi: Moda e Design: possono incontrarsi questi due mondi?

Paul Smith: Moda e design nella storia hanno attraversato periodi molto diversi ma sono sempre andati di pari passo. Dagli anni 80’ in cui il binomio bianco e nero era il linguaggio di influenza giapponese comune ad entrambi i settori, si è giunti a oggi a una sperimentazione del colore molto coraggiosa, dove pattern ed elementi decorativi sono diventati la cifra stilistica di molti brand.

Questa evoluzione si è verificata in entrambi i settori, influenzati dalle stesse tendenze o frutto di una contaminazione reciproca.

ML: Come convivono fashion e furniture nei punti vendita?

PS: In Paul Smith abbiamo un team di 12 architetti e furniture designer incaricati proprio di disegnare i nostri punti vendita in giro per il mondo e progettare anche gli arredi.

Ogni punto vendita deve essere unico, diverso per spirito e look, deve essere fortemente connesso alle caratteristiche del luogo in cui sorge, questo spiega perché gli edifici Paul Smith sono spesso molto differenti tra loro nelle principali città nel mondo.

ML: Qual è stata l’evoluzione partendo dai tuoi primi punti vendita di Nottingham?

PS: Fin dall’inizio per me era fondamentale la presenza di pezzi vintage di design nell’allestimento. Il mio primo negozio a Nottingham, la mia città natale, risale al 1970. Era un negozio troppo piccolo per contenere degli arredi, 3metri x 3, quindi l’allestimento era limitato a pochi oggetti.

In seguito abbiamo aperto a Londra e finalmente abbiamo potuto ospitare pezzi di design di dimensioni più grandi, di Rosenthal, di Driade…

ML: E l’ispirazione dal punto di vista culturale? Quali sono i tuoi interessi?

PS: Sono interessatissimo al design ma anche all’architettura. Ho iniziato a leggere la rivista Domus nell’87, in quegli anni farla arrivare a Nottingham era molto difficile ma per fortuna avevo degli amici a Milano incaricati di spedirmela dove abitavo, a Holland Street. Se potessi vorrei ringraziare il grande Gio Ponti per aver pubblicato i suoi progetti già dal ’67.

Amo la cura dedicata alla ricerca dei materiali che si vede in molti edifici del passato; materie prime pregiate come il marmo di Carrara impreziosivano le superfici. Elementi estetici e funzionali avevano la stessa importanza, c’era una certa artigianalità nell’ideazione, la stessa che possiamo ritrovare nella manifattura.

ML: Cosa pensi di Milano in questo momento storico? Come nodo centrale di collegamento per la moda e per il design, pensi che sia cambiata negli anni?

PS: È certamente cambiata, dal punto di vista architettonico e dello skyline, si è arricchita di nuovi simboli e istituzioni per l’arte come la Fondazione Prada. Milano piace a tutti soprattutto per l’importante contributo che personalità influenti del mondo del furniture design e della moda hanno saputo dare negli anni.

Contemporaneamente è sempre stata una città un po’ segreta, Milano si fa conoscere lentamente con i suoi cortili e le piccole gallerie; percorrendo vie più nascoste si possono scoprire tutti i suoi lati migliori.

ML: Design e Fashion – Il pensiero all’origine della creazione è lo stesso?

PS: Penso che si tratti di due realtà con processi di realizzazione molto diversi. Per realizzare un capo bisogna controllare personalmente molti dettagli che vanno dalla scelta del tessuto, al lavoro dell’artigiano, alle stesse forbici da usare… ma talvolta bastano 30 minuti per avere un’idea dell’abito finito. Nel furniture design invece i tempi possono essere molto più dilatati. Spesso ricerca e progettazione si muovono in parallelo prendendo in considerazione tecniche e tendenze molto diverse tra loro ma legate da linguaggi comuni.

Il graphic design non è l’unico mezzo per progettare. Nel nostro studio ad esempio utilizziamo il computer quando è necessario ma sperimentiamo ancora con gli strumenti del disegno, della pittura e della stampa d’arte come la serigrafia, quindi con tutti quei mezzi espressivi che considerano l’errore come una potenzialità.

ML: Tornando al concept degli store, secondo te quale sarà il loro futuro? Pensi davvero che la digitalizzazione nel commercio possa avere la meglio?

PS: L’e-commerce incide molto sul fatturato annuo, per noi quasi un 30% in più, ma non possiamo certo pensare a delle città senza negozi.

Non possiamo immaginare la scomparsa degli shop e delle figure professionali legate alla loro progettazione.

ML: Hai deciso di dipingere di rosa l’edificio dello store di Melrose Avenue a Los Angeles, perché questa scelta?

PS: È stata una scelta basata sull’analisi del contesto, volevo che l’edificio fosse estremamente riconoscibile, si distinguesse all’interno di un sistema urbano fatto di grandi strade simili tra loro.

Mi sono ispirato all’opera dell’architetto Luis Barragán, alle geometrie solide e pulite e ai colori vivi e ho trasformato quello che si potrebbe descrivere come un cubo di cemento in un punto di riferimento per la città.

ML: Se dovessi nominare un designer o un architetto dal quale hai tratto molta ispirazione, quale citeresti?

PS: Ho sempre tratto molta ispirazione dai nomi importanti dell’architettura ma soprattutto da un maestro del passato, il Palladio, e dalle sue teorie sulle proporzioni perfette.

L’estetica delle proporzioni, l’approccio matematico applicato alla progettazione architettonica sono comuni anche al disegno di un abito.

ML: Sei un appassionato anche di automobili, tu hai una Bristol giusto?

PS: Sì, la Bristol è un’auto inglese del ’56; la mia è bordeaux, proprio come quella del film di Daniel Day Lewis. Daniel è un amico e siamo stati molte volte seduti su quell’auto insieme. C’è una forte affinità tra noi due, come l’importanza che riconosciamo nel lavoro manuale.

Molti sanno che Daniel ha fatto un’esperienza di artigiano delle calzature a Firenze, ma ha realizzato anche molte opere di carpenteria lavorando con l’acciaio e il ferro. Anche per me il lavoro manuale è importantissimo: faccio ancora a mano le maquettes per i nuovi negozi, le intaglio personalmente.

ML: Lusso, è ancora una bella parola? oggi fa pensare a una sorta di eccesso e non ha sempre una connotazione positiva, tu cosa ne pensi?

PS: Penso che il significato della parola scorra in parallelo con il suo utilizzo e che in questa epoca storica la parola Luxury sia decisamente troppo utilizzata. Qualsiasi nome di prodotto può essere seguito da “luxury” nella ricerca spasmodica di raggiungere uno status e creare appartenenza, si affievolisce così l’importanza della parola stessa. Prima parlavo del mio interesse per il “fatto a mano” che per me rappresenta il vero concetto di lusso oggi.

Circondati però come siamo da giganti industriali che producono moda low cost, fast fashion, è sempre più difficile trovare qualcosa di unico, fatto col cuore. La velocità è un’altra vera problematica di oggi; sembra essere direttamente proporzionale al nostro valore sul lavoro o nella società. Cerchiamo nel digitale e nella frequenza amplificata un modo per saziare il nostro bisogno di compiacere. C’è una frase però che mi ripeto spesso: “Nobody cares how good you used to be”, a nessuno importa quanto sei bravo.

ML: Non sei un designer ma come sottolinei ironicamente tu sei più un “designer di designers”. In questa staffetta tra un grande della moda un grande del design italiano vorrei chiedere anche a te se ci sono dei punti di contatto tra questi due mondi: Moda e Design.

Alberto Alessi: Non sono un designer, esatto, sono piuttosto un design manager. Parlando in riferimento alla mia esperienza ho avuto, in questi circa 50 anni di attività, molti contatti con esponenti del mondo della moda; mi sarebbe piaciuto veder applicare i metodi progettuali e le idee del design di moda al product design. Purtroppo la forte distinzione tra un product o furniture designer e lo stilista sta principalmente nella scelta dei materiali e quindi nel saper disegnare in tridimensione.

 

Il primo scontro con questo limite fu già alla fine degli anni 70, quando organizzammo a Berlino un seminario sotto la guida di Alessandro Mendini e tra gli invitati a partecipare c’era Jean Charles De Castelbajac che mostrò una vera difficoltà nel confronto col il disegno tridimensionale. Mi ricordo anche un altro episodio legato in questo caso a Paco Rabanne che aveva un’idea bellissima per uno specchio per Alessi, lo voleva chiamare “La più bella del reame” ma alla fine non riuscì a disegnarlo davvero e non andò mai in produzione.

ML: Tu hai un’enorme esperienza: in questi anni in Alessi, avete avuto la possibilità di progettare un range vastissimo di prodotti. Mi ricordo addirittura una Panda Fiat e altre esperienze legate al mondo dell’automobile.

AA: In effetti quello che hai appena citato, della Panda, è uno dei rari casi in cui abbiamo lavorato in bidimensione, perché la Fiat non ci aveva dato la possibilità di disegnare per intero una macchina ma soltanto la forma degli esterni e alcuni dettagli degli interni.

Il sogno di fare una Alessi car poteva realizzarsi con Starck qualche anno fa ma, ahimè, nessuna industria automobilistica si è rivelata interessata a produrre il progetto. Magari in futuro…

ML: Forse è più vicino di quanto crediamo! Pensando al futuro dell’automotive si va nella direzione di ottenere auto sempre più intelligenti e driverless, verranno meno i vincoli di sicurezza che obbliga il design ad assomigliarsi e forse gli esterni diventeranno sempre più forme libere e gli interni quasi dei luoghi di lavoro. Ma le ricerche di mercato non sono sempre attendibili, lo stesso Achille Castiglioni quando ero molto giovane mi disse che l’unica cosa importante per progettare è non dare importanza alle ricerche di mercato. Hai qualche aneddoto su di lui, tu che lo conoscevi bene?

AA: Mi ricordo di averlo coinvolto in più occasioni, ma quando gli chiedevo di disegnare oggetti per la cucina inizialmente si opponeva. Più che altro era preoccupato di non aver un’esperienza sufficiente in cucina.

Poi ne ha disegnati comunque e devo dire che, nonostante la cucina fosse un mondo più femminile, i designer che progettavano utensili sono sempre stati in maggioranza uomini che come lui non avevano una particolare esperienza in questo senso. È curioso!

ML: Milano, capitale del Furniture design e della moda, l’hai vista cambiata ultimamente? I nomi del design sono sempre più internazionali, cosa è cambiato ora che sono venuti a mancare molti dei grandi che hanno fatto la storia del design italiano?

AA: Milano continua certamente a essere capitale del design ma per motivi diversi da quelli di una volta. Prendiamo la storia del design italiano: fino agli anni 70 il prodotto era disegnato da un designer italiano e realizzato in italia da un’azienda italiana. Se però ci spostiamo già alla seconda parte degli anni 80 una buona parte dei prodotti italiani non era già più disegnata da italiani. Le aziende italiane si sono aperte a un panorama di respiro più internazionale e personalmente trovo questa tendenza positiva: si sono ossigenate.

Se la componente dell’italianità dell’autore veniva meno rimaneva comunque quella della produzione. Oggi in molti casi non c’è più nemmeno la produzione italiana: il design italiano è rappresentato da designer stranieri e prodotto all’estero. Questa pratica di mediare tra il mercato e gli esponenti internazionali del panorama design è, per i marchi italiani, una mediazione di tipo più artistico. Forse ciò che è cambiata è la figura dell’imprenditore che oggi ha un ruolo sempre più vicino a quello del curatore.

ML: Tutti sanno che tu hai una formula del successo che ti permette di scegliere quali prodotti mettere in produzione senza sbagliare, ma in cosa consiste?

AA: È vero e funziona. Consiste in una formula matematica che consente di definire con precisione quale sarebbe il successo del prototipo che hai davanti qualora decidessi di metterlo sul mercato.

È una formula basata su 4 parametri, ogni parametro è diviso in 5 livelli ai quali corrispondono dei punteggi. Negli anni si è rivelato un metodo infallibile.

ML: Il tuo con i designer è anche un lavoro di scouting. Pensi prima all’oggetto e poi a chi potrebbe realizzarlo oppure capita che sia il designer a proporti dei progetti?

AA: Molto spesso lavoriamo come una classica azienda a dei brief di nuovi prodotti. Una volta scritto il brief propongo a tre nomi il progetto e chi è interessato lo inizia.

Se la proposta che ricevo si rivela interessante per la realizzazione, inizia la sua produzione che di solito dura circa un anno.

ML: Tu non ami molto il mondo della moda eppure ci sono degli elementi in comune col mondo del design anche a livello di produzione.

Il design ha preso dalla moda la velocità: ora presentiamo due collezioni all’anno e questa rapidità è quasi eccessiva per i tempi del product design dove un designer che progetta una sedia non sempre riesce a muoversi in parallelo ai desideri del mercato.

Lo stesso Enzo Mari sosteneva “quando un progetto che ho fatto si vende bene inizio a pensare che non fosse un buon progetto”.

ML: Questa di fare un progetto per il piacere di farlo è una caratteristica appartenente anche al mondo dell’arte e della musica. Forse i progetti fatti con amore sono quelli che a lungo termine acquistano più valore?

AA: Questa possibilità può appartenere più al design che alla moda. Un abito di 60 anni fa può aver rappresentato una rivoluzione in un periodo storico di grande importanza culturale dove sarà confinato senza continuità funzionale;

nel design un prodotto può essere allo stesso tempo una rivoluzione legata ad un momento storico e continuare ad essere utilizzato negli anni successivi allo stesso modo.

ML: A quali prodotti storici sei più legato?

AA: Sicuramente alla prima caffettiera espresso degli anni 70 disegnata da Richard Sapper, un omaggio al mio nonno materno Alfonso Bialetti; in produzione dal ’79 è anche stato il primo prodotto di Alessi dedicato alla cucina. Dal ’21 al ’79 infatti la Alessi produceva solamente oggetti per la tavola e il bar, solo dopo la caffettiera si iniziarono a produrre utensili e altri oggetti.

Un’altra collaborazione che ricordo con affetto è stata quella con Saeko, per una collezione di orologi. Tutto iniziò con Aldo Rossi che voleva disegnare un orologio, arrivò con un modellino che poi si chiamò “Momento”, successivamente Achille Castiglioni disegnò il suo “Record”, poi venne quello di Sapper e così via… la Saeko si accorse di questi orologi e ci propose di fare una collezione di 20 modelli.

ML: Quanto influisce il marketing oggi sul lavoro del designer? Abbiamo ancora un rapporto empatico con alcuni oggetti?

AA: Oggi tutto sottostà alle richieste del marketing, uno strumento che asseconda spesso i desideri dei target reprimendo creatività e poetica a discapito del buon design. Per me il marketing è come una gabbia nella quale si cerca di comprimere la realtà della società uniformando i canoni e l’estetica dei prodotti in uscita.

Molte aziende oggi pretendono la regia completa nella realizzazione di un prodotto, lasciando sempre meno libertà al designer di esprimersi con le proprie competenze e potenzialità. Questo non può che essere dannoso per il mercato e sicuramente genererà oggetti che non rimarranno importanti nel tempo.

ML: E come si colloca il design nel mondo del lusso?

AA: Per me il design non è lusso: come il lusso fa leva sul desiderio di appartenenza e aspirazione dell’individuo, ma gli oggetti di design vengono concepiti per una produzione industriale e quindi destinati a fasce di pubblico molto ampie.

Fanno eccezione i rari casi in cui edizioni speciali o limitate di un prodotto sono riservate al pubblico di nicchia delle gallerie.

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